Vidor

Guido Cadorin, il coraggio della ricostruzione

 

La Grande Guerra sconvolse questo territorio che accompagna il Piave quando, uscito dalle valli bellunesi, guadagna la pianura. Ma anche l’immediato dopoguerra lasciò un segno profondo: ai nomi delle località si aggiunse il tragico suffisso “della Battaglia”, la Piave cambiò definitivamente genere, una porzione del greto divenne l’Isola dei Morti. La ricostruzione fu rapida in un dialogo tra il “com’era dov’era” e scelte che in questo terreno, reso vergine dal conflitto, diedero forma a nuove idee nell’arte. Anche nell’arte sacra.  

 

Grande innovatore fu il pittore veneziano Guido Cadorin che ha rilanciato, in forme moderne, l’antica tradizione dei frescanti. San Pietro di Feletto, Follina, Soligo, Farra di Soligo, Col San Martino, fino all’abbazia di Santa Bona a Vidor: sono le tappe della storia dell’affresco che va dal Duecento al Quattrocento. Nel 1921 Guido Cadorin arriva nella parrocchiale di Col San Martino per lasciare affreschi dall’elegante segno grafico. Nel 1925 realizza la “Pentecoste” nella cupola di Moriago della Battaglia. Tra il 1922 e il 1926 è a Vidor. La cittadina, luogo di un antico passo barche e strategica durante la Prima Guerra Mondiale per la presenza del ponte, era stata distrutta. Cadorin dipinge nella parrocchiale, nella chiesa dell’Addolorata sul colle del Castello, già trasformata in Monumento ai Caduti, e decora la Villa della famiglia Zadra, importanti industriali della seta, con fantasiose immagini Liberty. 

 

E nel frattempo viene chiamato da D’Annunzio al Vittoriale. Gli interventi di Cadorin, e le collaborazioni che seppe creare, furono poi da stimolo per altri artisti che qui operarono nei decenni successivi: da Giovanni Zanzotto a Bepi Modolo, da Carlo Donati a Valentino Canever, da Carlo Conte a Marta Sammartini. 

 

Il soffitto dell’aula unica della parrocchiale, dedicata al Santo Nome di Maria, è campito da una monumentale Ascensione. In basso, al buio, intravediamo tre soldati che dormono. E’ un sonno che simboleggia l’incapacità dell’uomo di comprendere la Resurrezione. Le Tre Marie sono ombre che si stagliano sull’alba del Nuovo Giorno. Davanti a loro un angelo di luce, massiccio e solenne, è seduto sul sepolcro vuoto e indica con gesto sicuro il registro superiore. La Resurrezione è qui un’assenza che diviene presenza sul Tabor. Elementi guida sono la luce e il colore. Le nubi svelano il monte affollato dagli Apostoli e al di sopra la bianchissima figura di Cristo pare aspirata da un cono di nubi e dagli angeli. Dal buio della terra deserta, perché ora il tempo e la storia sono sospesi, si giunge alla luce più intensa.

 

Guido Cadorin è un pittore veneziano. Si forma in quella città che all’inizio del Novecento è estremamente vivace. Studia con Duilio Korompay, conosce Modigliani, a 16 anni espone a Ca’ Pesaro. Nella prima maturità dei suoi trent’anni è capace di creare visioni gigantesche, dove convivono astrazione e concretezza. Si fa erede della tradizione del più puro Quattrocento italiano, di Piero della Francesca e Beato Angelico. Rifugge però la pittura accademica che in quegli anni caricava le iconografie tradizionali di volti pietosi. Le sue interpretazioni del sacro sono libere, fantasiose, ma esito di un pensiero meditato: prende i temi della tradizione e li reinterpreta nelle forme e nei colori della modernità. 

 

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