San Pietro di Feletto

SAN PIETRO DI FELETTO

Una “fotografia” di mestieri antichi

 

Nel cuore delle “Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene”, sorge uno degli emblemi più significativi di questo paesaggio culturale. E’ la Pieve di San Pietro di Feletto. Per chi scende da Refrontolo, è un’esperienza di struggente bellezza scorgerne il complesso, maestosamente appollaiato su una dolce altura. Di origine longobarda, ha assunto poi l’attuale assetto, di impronta romanica.

 

In epoca medievale era punto di riferimento per le comunità cristiane del territorio, in quanto chiesa battesimale e matrice di altre cappelle. Per accedervi, si percorre una scalinata. Spostamento fisico questo, che ha già valore di elevazione spirituale. Si passa così al sagrato, dalla foggia alquanto caratteristica e significativa. Si tratta infatti di un portico. Un luogo che accoglie, che ripara, che parla attraverso le immagini sacre che ne “colorano” la facciata. Sempre lì, a disposizione. Anche quando le porte della chiesa sono chiuse. Un luogo che ospitava anche pubbliche adunanze. Deputato all’aggregazione, al convenire della comunità locale.

 

Ebbene, sotto questo arioso spazio, più di seicento anni fa, un ignoto frescante, vicino ai modi di Tomaso da Modena, realizza un’immagine potente. Basta guardare verso l’alto per scorgerla, entro una cornice a doppio nastro che racchiude all’apice l’iscrizione S. Dominicha. L’artista costruisce ogni dettaglio mediante un disegno abile, saldo, accompagnato dall’utilizzo di pochi colori: l’ocra, il bruno, il rosso stesi su uno sfondo lattiginoso. L’effetto è caldo. Morbido e incisivo al contempo. Protagonista della composizione è il Cristo. Il suo aspetto è inconfondibile: il nimbo è crucifero, il costato e le estremità mostrano i segni della Passione. La sua figura intera e in posizione frontale occupa a tutta altezza lo spazio. Sembra sospesa, con le braccia discostate dal corpo e i piedi divaricati. Ma lo sguardo è vigile. E l’incarnato è roseo, vivido, ottenuto con un colore liquido e trasparente dato a velature delicate. Cristo guarda alla sua sinistra, il lato dove stanno i peccatori. Intorno a lui, fluttuano, come sospese nel tempo, decine e decine di attrezzi, manufatti, animali, figure umane, una sorta di ricca galleria di allusioni al lavoro e alle attività domestiche.

 

Siamo intorno agli anni Ottanta del Trecento e questo elenco didascalico ci appare come una gustosa fotografia della vita quotidiana degli abitanti di allora. Artigiani, commercianti, contadini. Il fabbro, il tessitore, il fornaio, il maniscalco, il calzolaio, il cuoco, il cacciatore. E ancora, il barbiere, l’orefice, il sarto, il falegname, lo stalliere… E se per santificare le feste occorre partecipare al sacrificio eucaristico, sospendere ogni attività lavorativa, per gli sposi significa astenersi anche dal consumare rapporti carnali. A ciascun tipo di “sgarro”, corrisponde sul corpo di Cristo una ferita da cui sgorga un fiotto di sangue. Numerose e inesorabili le macchie sulla sua tunica. Questa appare come abito da lavoro, dotato di comode maniche corte, l’orlo inferiore sfrangiato. Ma la foggia, le preziose bordure alle spalle e il decoro a croce della cintura ne fanno una veste liturgica. Cristo lavoratore e sacerdote ci sta parlando. Racconta la sua umanità, la sacralità del lavoro ma allo stesso tempo ci ammonisce: Non si lavori nel giorno del Signore!

 

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