Una striscia di prato con specie botaniche diverse.
Un sentiero posto a ridosso di un corso d’acqua.
E poi si scorge un ponte di legno che sale ripido dalla riva e procede in orizzontale.
E’ sorretto da una serie di quattro saldi pali con traversa, si riconoscono la ringhiera con terminazioni sferiche e persone che lo percorrono…
E sull’altra riva? Ecco un fitto bosco oltre al quale si scorge la porta di una città murata. All’interno un geometrico disporsi di edifici dai tetti a due falde, molto inclinate, su cui domina, isolata sul colle, la rocca con le sue torri quadrangolari. Il nostro sguardo raggiunge poi le colline, le ripide montagne retrostanti e sulla destra una rocciosa vetta dolomitica che pare imbiancata dall’ultima neve. La precisione del primo piano gradualmente si dissolve per rendere la profondità dello sfondo.
Attenzione però, quei tetti, quel ponte non sono tratti dal vero. Ci rivelano la conoscenza che il pittore ha della grafica e dell’arte al di là delle Alpi. Perché lungo la Strada di Alemagna salivano e scendevano merci, ma anche persone, idee, novità… In un’opera come questa, realizzata poco dopo il 1525, Francesco da Milano si dimostra aggiornato alle novità dell’arte veneta. La natura minuziosamente descritta in primo piano, che deriva dalla tradizione fiorentina portata a Milano da Leonardo da Vinci, diventa via via sensazione, atmosfera come nelle opere di Giovanni Bellini o Giorgione.
Le Dolomiti, le ripide dorsali delle Prealpi, le cordonate collinari, i castelli, le città murate e le limpide acque sono diventate presenze imprescindibili. L’arte veneta del Cinquecento è un mondo reale, tattile. E rende reale anche la scena che accompagna. E cosa c’è di più vero dell’armatura di San Vito? O del piviale che avvolge san Tiziano, un bellissimo velluto rosso con un lineare motivo a cammino? O le calze verdi di san Rocco? E poi osserviamo lo stendardo, i guanti, il pastorale… Santi veri, veri ritratti.
Scopriamo che san Sebastiano riprende il profilo dell’uomo nel “Miracolo del piede risanato” scolpito proprio nel 1525 nell’Arca di Sant’Antonio a Padova. E’ opera di Tullio Lombardo una delle voci più alte del classicismo veneto. Anche la composizione è chiara: la struttura piramidale si rafforza con gli sguardi e i gesti: San Vito guarda Maria, mentre Gesù è rivolto verso san Tiziano. In basso, al centro, i due santi protettori dalla peste sono inginocchiati e invocano la protezione della Madonna.
Rocco e Sebastiano, nati nella stessa area francese affacciata sul Mediterraneo, a più di mille anni di distanza. San Rocco è un pellegrino del Quattrocento, elegante, ma sul bordone ha un asciugatoio a simboleggiare la volontà di servire. San Sebastiano è il martire dei primi secoli, un uomo trafitto, ma non sconfitto, dalle frecce del martirio. La sua nudità è bellezza del corpo e dell’anima, il suo fisico è possente ed esprime la Salus, che è al contempo salute e salvezza. Tra loro c’è un alberello che collega la terra e il Cielo, suggerisce la rinascita che avviene con la fede, mentre un albero spoglio sta, significativamente, alle spalle del santo. Maria sulle nubi coniuga eleganza e quotidianità un angioletto offre a Gesù Bambino delle ciliegie. Quel frutto succoso allude alla Passione e la naturale voracità del Bambino ne sottintende l’accettazione. Ma qui le ciliegie non sono rosse, bensì una varietà gialla, un omaggio ai quei frutti più rari che allora, forse, si coltivavano nelle solatie colline di Anzano.
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